Alimentazione: ciò che mangiamo può incidere sul nostro DNA
Quello che mangiamo può modificare l’espressione del nostro DNA, può incidere sul nostro corpo ad un livello tanto profondo da cambiarci la vita.
Un tema sul quale stanno lavorando i ricercatori del gruppo Re.Me.Diet, impegnati nello studio dell’impatto epigenetico della dieta mediterranea sulle terapie delle malattie renali.
Si mira quindi a dimostrare come il cibo sia in grado di modificare l’espressione del DNA e capire quanto gli alimenti possono essere non solo prevenzione ma addirittura una cura. “Tanta roba”, se si pensa che nel nostro paese il 19,9% degli italiani soffre di obesità o è in sovrappeso, un problema che riguarda anche i più piccoli visto che un bambino su tre già a 11 anni è in sovrappeso.
A ribadire il concetto è Francesco Trevisani, nefrologo e ricercatore del San Raffaele di Milano e membro del gruppo di ricerca Re.Me.Diet. «Un’alimentazione equilibrata – ricorda – basata sul modello mediterraneo, è in grado di assicurare un buono stato di salute e diminuisce l’insorgere di diverse patologie».
Depressione in tarda età: un aiuto dal cerotto alla nicotina
Se la depressione arriva in tarda età, dopo i 60 anni, allora è molto probabile che sia resistente alle cure farmacologiche e legata anche a problemi di memoria.
Il cerotto alla nicotina potrebbe contrastare la depressione
Ora però il cerotto con la nicotina potrebbe cambiare le cose. Già, proprio come per il fumo, la nicotina potrebbe essere d’aiuto. Il cerotto in questione ha mostrato risultati promettenti. Lo rileva una ricerca pilota del Vanderbilt University Medical Center pubblicata sul Journal of Clinical Psychiatry.
Lo studio, di 12 settimane, è stato condotto tra novembre 2015 e agosto 2017 e ha esaminato 15 persone, di 60 anni e più, affette da un disturbo depressivo. «Lo studio è stato progettato per vedere se c’è un segnale per incoraggiarci ad andare avanti in una ricerca più ampia e più definitiva», spiega Warren Taylor, autore principale.
«Non vogliamo esporre le persone a qualcosa che non ha alcun beneficio, a meno che non abbiamo dati preliminari per suggerire che questo approccio potrebbe essere efficace». Fortunatamente i risultati incoraggianti non si sono fatti attendere, lo studio ha misurato la remissione dal disturbo raggiunta dal 50% dei partecipanti mentre complessivamente oltre l’80% ha avuto una buona risposta clinica.
Nei primi 2,5 anni di vita il futuro dei batteri intestinali
Nei primi due anni e mezzo di vita di un bimbo si determina la composizione dei suoi batteri intestinali, mentre i cambiamenti che avverranno dopo questo punto in poi sono piuttosto limitati. Uno dei più grandi studi clinici sui microbiomi nei bambini mai realizzato, pubblicato sulla rivista Nature, ci apre gli occhi sull’importanza della nutrizione nei primi giorni di vita.
Fondamentale al punto da esser definito il secondo cervello, il microbioma intestinale l’insieme dei miliardi di batteri che popolano l’intestino e che svolge un ruolo in tantissime funzioni dell’organismo, non solo quella digestiva. Per analizzarlo a fondo, i ricercatori dell’Università di Newcastle, nel Regno Unito, hanno utilizzato il sequenziamento genetico per analizzare 12.500 campioni di feci raccolti mensilmente da 903 bambini di età compresa tra 3 e 46 mesi. La composizione e la diversità del microbioma sono cambiate nel tempo in tre fasi distinte: il primo sviluppo (3-14 mesi), la transizione (15-30 mesi) e la stabilizzazione (dai 31 mesi in poi).
I maggiori cambiamenti sono stati identificati nelle prime due fasi, mentre dai due anni e mezzo in poi, la variazioni nel micro bioma risultavano molto piccole. La presenza del Bifidobacterium, notoriamente benefico, era abbondante nei bimbi allattati con latte materno e si è ridotto rapidamente dopo l’interruzione dell’allattamento.
Una volta svezzati, i bambini presentavano un cambio nella comunità batterica molto più rapido dell’atteso: il Bifidobacterium viene sostituito da batteri Firmicutes. «È probabile – spiegano i ricercatori – che questo rapido ricambio sia in risposta alle nuove fonti alimentari. Sorprendentemente, da questo punto in poi, il microbioma progredisce rapidamente verso la stabilità, con una composizione che potrebbe rimanere tale per il resto della vita di quell’individuo».
L’esame del sangue può dirci se rischiamo l’infarto
Un semplice esame del sangue può dirci se rischiamo di avere un infarto. A metterlo a punto l’equipe guidata da Peter Meikle, capo del laboratorio di metabolomica del Baker Heart and Diabetes Institute di Melbourne che conta di condurre sperimentazioni cliniche entro due o tre anni.
I livelli dei lipidi, spiegano i ricercatori, sono differenti nelle persone che hanno subito un attacco cardiaco e offrono al medico una migliore idea delle probabilità di averne un altro. Il team ha quindi identificato i biomarker dei lipidi del plasma e ha sviluppato il test dopo aver esaminato 10 mila campioni, individuando quelli che determinano se una persona è a rischio di avere un secondo infarto.
Lo studio, pubblicato sulla rivista JCI Insight, mostra una diagnosi del 19% migliore rispetto ai test correnti nell’individuare tale rischio. Il prossimo passo sarà di sviluppare un test che predica attacchi di cuore nelle persone sane. I test di biomarker sono un’importante nuova area della medicina e promettono di cambiare radicalmente il nostro modo di ottenere una diagnosi.
Adolescenti superconnessi, ma scollegati dal mondo reale
«I superconnessi», è così che Domenico Barrilà definisce i giovani di oggi nel suo nuovo libro che analizza la solitudine degli adolescenti che si perdono nel mondo virtuale.
Per essere precisi il titolo del libro è «I superconnessi, come la tecnologia influenza le menti dei nostri ragazzi e il nostro rapporto con loro» (Ed URRA Feltrinelli). La sorpresa è che la riflessione di Barillà riguarda molto i genitori, che pur lamentando l’uso eccessivo di smartphone e web dei propri figli, mostrano di non avere controllo sul loro rapporto con i dispositivi digitali.
«I ragazzi imparano dai nostri comportamenti – spiega – non dalle parole, è impossibile portarli dove noi stessi non sappiamo arrivare. Dunque un genitore che utilizzi in modo immaturo gli strumenti digitali perde autorevolezza e lede le sue chance di correggere i figli. I giovani nell’ansia di voler essere costantemente connessi, trasferiscono il bisogno di “legami”.
Quindi più che mettere sotto accusa le nuove tecnologie, dovremmo preoccuparci di munire i figli di solidi sentimenti comunitari». La Rete è un caso particolare di vita sociale, che rivela perfettamente, magari esasperandoli, gli orientamenti profondi dei ragazzi. Dice chi siamo veramente. Sui social i ragazzi veicolano l’immagine che si sono fatti di sé, drammatizzano, come in una recita, ciò che credono di essere.
E voi, qual è il vostro rapporto con queste tecnologie?
Il fumo e l’obesità aumentano il rischio di mal di schiena
Andare a lavoro a piedi o bicicletta può aiutare a prevenire il mal di schiena della zona lombare. Il fumo e l’obesità, invece, sono devastanti. A dimostrare l’importanza degli stili di vita nei confronti di uno dei dolori più diffusi nella popolazione è uno studio pubblicato sulla rivista Arthritis Care & Research.
I ricercatori dell’Istituto finlandese per la salute sul lavoro hanno utilizzato i dati l’Indagine sulla salute 2000 relativa a 7.977 adulti di età pari o superiore a 30 anni e che ne raccolto informazioni su salute, lavoro e stile di vita tramite questionari, interviste domiciliari ed esami clinici.
Dopo 11 anni hanno confrontato il follow up di 3.505 dei partecipanti iniziali tramite i risultati dell’Indagine sulla salute 2011, ponendo nello specifico domande riguardanti il dolore lombare. Ne è emerso che episodi di lombalgia per più di 30 giorni negli ultimi 12 mesi erano più importanti nelle donne che negli uomini. L’obesità addominale, il fumo di sigaretta e il lavoro fisico faticoso aumentavano il rischio di soffrirne, mentre camminare o andare a lavoro in bicicletta erano associate a una minore probabilità di essere colpiti.
Disania: la malattia di chi non riesce a tirarsi giù dal letto
A chi non piace restare sotto le coperte al mattino?
Diciamocelo, è normale che sia così e sarebbe strano il contrario. In alcuni casi, però, si esagera e la voglia di restare a letto può diventare un vero e proprio problema, situazioni in cui non si riesce proprio del tutto ad alzarsi. Una vera e propria malattia, chiamata disania o clinomania.
Che cos’è la disania?
«Disania è un termine usato raramente per esprimere il fatto che non si riesce a tirarsi giù dal letto al mattino», evidenzia in un articolo di Bbc Three il dottor Mark Salter, del Royal College of Psychiatrists. «È un comportamento a volte osservato in coloro che soffrono di un disturbo depressivo». La disania, che non è riconosciuta dal punto di vista medico, non si basa solo sul sentirsi più sonnolenti del solito: è un’incapacità cronica di lasciare il letto. Coloro che dicono di soffrirne possono rimanere a letto per giorni e giorni e spesso provano ansia al pensiero di alzarsi.
Possono anche sentire il desiderio impellente di tornare sotto le coperte una volta che le hanno lasciate. Secondo l’esperto è importante sapere che è improbabile che venga diagnosticata la sola disania. Di solito è considerato un sintomo di una condizione di base come la depressione o la sindrome da stanchezza cronica.
Una buona strategia per chi prova la sensazione di non volersi alzare è cambiare le proprie abitudini. Per prima cosa, cercare di regolare la quantità di sonno. Il relax è fondamentale: si può provare prima di andare a letto con un bagno o un po’ di esercizio leggero come lo yoga. No alle distrazioni come telefoni e computer, si invece all’attività sessuale.
E voi, che ne pensate?
Una nuova terapia tutta italiana per far ricrescere i capelli
In gergo si chiama “alopecia androgenetica”, è la più comune delle calvizie e fa disperare sia uomini che donne, giovani o più avanti con gli anni. La notizia è che ora la si può combattere senza i famosi “trapianti” di follicolo.
I ricercatori dell’Istituto dermopatico dell’Immacolata (Idi) Irccs di Roma hanno messo a punto una terapia biologica e cellulare basata sull’infiltrazione di derivati del sangue. Lo studio è stato pubblicato dalla rivista americana Dermatologic surgery, che spiega l’efficacia della terapia e mette in evidenza l’importanza delle piastrine e di alcune proteine presenti nel sangue concentrate tramite un emoconcentratore progettato e prodotto da una azienda italiana. L’emoderivato, iL-PRF, è un plasma ricco di piastrine, globuli bianchi e fibrina. Lo studio è il più importante per numero di pazienti, mai realizzato.
In parole povere, il meccanismo prevede un prelievo di sangue al paziente che viene trattato con l’uso dell’emoconcentratore e da cui si scinde il plasma ricco di piastrine, globuli bianchi e fibrina. Questo concentrato viene quindi iniettato nella zona della testa dove c’è stata la caduta di capelli.
La terapia può essere usata più volte, non ha effetti collaterali se non in alcuni casi sensazione di gonfiore o bruciore tra le 48 e le 72 ore successive e si risolve spontaneamente. La tecnica fa parte della medicina rigenerativa che già da anni viene usata per contrastare alcune malattie come per esempio l’artrosi al ginocchio.
E voi, vi prendete cura della salute dei vostri capelli?
La psicolibina: l’ultima frontiera del doping mentale
L’ultima frontiera del doping mentale? Sostanze per potenziare le proprie capacità.
Non preoccupatevi, nulla di pericoloso, ma fa discutere comunque l’idea di utilizzare sostanze “psichedeliche”, anche se in dosi minime e quindi non pericolose.
A suggerirlo è uno studio di Lorenza Colzato, della Leiden University in Olanda, che per la prima volta dimostra come micro-dosi (innocue e senza effetti allucinogeni) di “psicolibina”, che si estrae da particolari tartufi – potenziano la creatività. «Questa e altre sostanze – sostiene Colzato – sono già in uso in America tra i guru dell’informatica nella Silicon valley e i broker di Wall Street proprio per le loro funzioni sulle capacità mentali, ma ad oggi mancava una qualsiasi validazione scientifica». Colzato ha usato micro dosi della sostanza (appena 0,33 grammi) per evitare effetti allucinogeni.
Coinvolgendo 38 persone ha visto che nel giro di 90 minuti dall’assunzione di psilocibina, i partecipanti presentavano un potenziamento delle capacità di pensare fuori dagli schemi e in maniera originale (il cosiddetto pensiero divergente, ad esempio pensare a una comune bottiglia non come a uno strumento per bere, ma come a uno strumento musicale). «Il microdosing – spiega – sembra avere un effetto specifico sulla creatività che svanisce nel giro di alcune ore».
Secondo la scienziata «la sostanza potenzia la creatività aumentando il livello di serotonina, neurotrasmettitore importante sia per il tono dell’umore, sia per la flessibilità cognitiva, cioè per una maggiore adattabilità ai cambiamenti, capacità che è alla base dell’essere creativi».
Rischio di Alzheimer? Ora è possibile “leggerlo” negli occhi
Incredibile ma vero, l’Alzheimer si “può leggere” negli occhi: infatti, tre malattie della vista tutte a decorso degenerativo – glaucoma, maculopatia e retinopatia diabetica – sono risultate legate al rischio di ammalarsi di Alzheimer.
Lo scoperta arriva grazie ad uno studio condotto presso la University of Washington School of Medicine e reso noto sulla rivista Alzheimer’s & Dementia. Gli esperti hanno monitorato per parecchi anni la salute di 3.877 over-65 scelti a caso nella popolazione. Nel corso del periodo di studio hanno diagnosticato quasi 800 casi di Alzheimer.
Gli anziani con maculopatia, o retinopatia o glaucoma presentavano un rischio di ammalarsi di Alzheimer del 40%-50% maggiore rispetto a coetanei con pari fattori di rischio ma senza problematiche oftalmiche. Altre malattie della vista tipiche dell’età anziana come la cataratta non sono risultate legate al rischio di Alzheimer, segno che c’è proprio un meccanismo comune tra demenza e degenerazione di retina o nervo ottico.