Rivascolarizzazione degli Arti
L’esigenza di salvare un arto è particolarmente sentita nei pazienti affetti da ischemia critica, condizione nella quale l’arto non risponde più alle terapie mediche e alle terapie conservative. Un arto affetto da mancanza di circolazione deve essere necessariamente amputato se non si interviene con un gesto terapeutico per evitare questa conseguenza.
Il numero delle amputazioni di coscia e di gamba si è mantenuto costante negli ultimi anni cioè intorno ai 5500 operazioni per anno negli ultimi 10 anni nonostante lo sviluppo enorme della terapia endovascolare, addirittura per fascia di età al di sopra dei 70 anni arrivano al 2×1000 l’anno. L’ischemia critica viene trattata con tecniche endovascolari, cioè con la tecnica della dilatazione attraverso il palloncino ovvero con l’angioplastica percutanea, in maniera poco invasiva, e questo ha successo circa nell’85% circa dei casi, anche se la tecnica ha talvolta risultati effimeri e quindi necessita di essere ripetuta nel tempo.
Accanto a questo purtroppo c’è un 15% circa di pazienti che, per il carattere eccessivamente avanzato della malattia, non beneficiano adeguatamente della terapia endovascolare; per questi rimane aperta l’opzione della chirurgia aperta, quindi sono questi i pazienti più a rischio e più difficili da trattare e che pongono anche maggiori problemi tecnici. In questi casi la posta in gioco è molto alta perché in un paziente affetto da ischemia critica si possono verificare anche delle piccole gangrene alle estremità degli arti, e queste sono lesioni estremamente dolorose e sono delle porte aperte all’infezione cronica.
Quando questo avviene in un paziente diabetico questa infezione determina un grave scompenso della glicemia e quindi una serie di turbe metaboliche per cui la mancata risoluzione al problema porta poi una parabola discendente che, se da una parte può portare l’amputazione, dall’altra parte può portare ad una serie di conseguenze che poi incidono sulla mortalità del paziente. Trattando dei pazienti con maggiore rischio, quindi pazienti con lesioni più estese, come lesioni gangrenose parcellari più avanzate,la soluzione sarebbe optare per la chirurgia aperta.
Quest’ultima si è modificata molto negli ultimi decenni evolvendo verso una chirurgia estrema cioè una chirurgia di rivascolarizzazione anche delle arterie al di sotto della caviglia e le arterie del piede. Con queste tecniche all’avanguardia si riesce ad effettuare una rivascolarizzazione diretta con by-pass, i quali possono essere perfezionati solo tramite l’utilizzo di vene autologhe. Principalmente viene usata la vena safena; quando questa manca si utilizza la piccola safena o le vene degli arti superiori anche in combinazione con dei segmenti per dei bypass più lunghi.
Le percentuali di successo di queste operazioni, in mani esperte, sono superiori al 90%, ma si tratta di operazioni molto complicate che necessitano di una lunga curva di apprendimento. I risultati a distanza sono gratificanti in un certo senso perché mentre la sopravvivenza a 5 anni della popolazione non trattata è praticamente al di sotto del 20%, proprio per il carattere particolarmente grave della condizione, una popolazione normalmente trattata ma solamente con terapia endovascolare la sopravvivenza è intorno al 38% a 5 anni.
Quando si fa buon uso di tutte le tecniche, riservando al terapia endovascolare in pazienti che possono beneficiarne di più, e riservando la terapia chirurgica aperta a coloro che sono al di la delle possibilità dell’endovascolare, la sopravvivenza diventa quasi raddoppiata arrivando a superare il 60% a 5 anni. Per cui si consiglia, in pazienti affetti da questa patologia che può portare anche alla morte, di aggiornarsi sempre sulle nuove tecniche sperimentate da grandi medici, e di non perdere mai la speranza di guarigione.
Riassunto dell’intervista al Dott. Francesco Spinelli
L’artrite si cura nel piatto
Nonostante la mole di lavori scientifici che stanno confermando i legami tra alimentazione e le varie forme di artrite (Artrite reumatoide, Artrite reattiva, Artrite psoriasica) sono ancora poche le strutture che propongono specifici cambi alimentari per controllare dolore e infiammazione e aiutare chi ne soffre a recuperare il proprio stato di benessere in modo naturale.
Il legame tra alimentazione e artrite
Ci sono due aspetti che legano il cibo e l’infiammazione. Il primo dipende dalle citochine del sistema immunitario stimolate dall’ingestione di un cibo che genera una infiammazione alimentare. È legato all’innalzamento dei livelli di Baff, di Paf e di altre citochine, che come descritto da Cheng (1) sono in grado di attivare una risposta autoimmunitaria nell’organismo. Si tratta del meccanismo che molti identificavano con il nome ormai obsoleto e ascientifico di “intolleranze alimentari“. Il secondo dipende invece dalle adipochine prodotte dalle cellule del tessuto adiposo come risposta alla particolare modalità alimentare, ad esempio dalla dominanza di assunzione di carboidrati rispetto alle proteine (con produzione di visfatina), dal digiuno prolungato (con produzione di resistina) e dal mancato rispetto del fisiologico timing alimentare (in assenza di prima colazione ad esempio la leptina non viene prodotta). Grazie a queste nuove conoscenze è possibile affrontare ogni caso di artrite, anche quando ci sia una forte componente autoimmunitaria, partendo dallo studio dell’infiammazione da cibo, del Profilo Alimentare personale e impostando una proposta nutrizionale individualizzata adatta a ridurre i livelli di infiammazione locali e sistemici.
Oltre al primo importante lavoro di Francisca Lago (2), anche le ricerche di Conde (3), pubblicate su Discovery Medicine, hanno considerato gli effetti di induzione dell’artrite legati alla scorretta distribuzione di proteine e carboidrati all’interno dei singoli pasti. La ricerca scientifica sta infatti confermando oggi il fondamentale impatto delle adipochine nella genesi dell’infiammazione articolare e dei fenomeni dolorosi che ne sono correlati.
Il sistema alimentare che spesso consiglio ai nostri pazienti, a partire dalla ricca prima colazione, mira specificamente a controllare e orientare la produzione delle adipochine rilasciate dal tessuto adiposo, e a ridurre la produzione di Baff (B Cell Activating Factor) che, grazie agli studi di Lied (4) spiega tutti i sintomi infiammatori che usualmente sono ascritti al cibo.
Attilio Speciani
Per approfondimenti:
1) Chen M et al, Cytokine Growth Factor Rev. 2014 Jun;25(3):301-5. Epub 2013 Dec 24.
2) Lago F et al, Nat Clin Pract Rheumatol. 2007; 3(12):716-724
3) Conde J et al, Discov Med. 2013 Feb;15(81):73-83
4) Lied GA et al, Aliment Pharmacol Ther. 2010 Jul;32(1):66-73. Epub 2010 Mar 26
Articolo Pubblicato da Nutrizione 33
Il piede “organo di senso”
Dal modo in cui camminiamo dipende la salute delle nostre gambe e non solo.
Il piede oggi è considerato un “organo di senso” in quanto, prelevando le informazioni dal suolo, informa il sistema nervoso centrale della nostra posizione nello spazio insieme ad occhi ed orecchio interno.
Uno squilibrio nella funzione di tali strutture può avere influenze sul sistema veno-linfatico aggravando patologie venose, o alterando l’ergonomia del nostro modo di muoverci causando mal di schiena dolori cervicali, instabilità, cefalee, gonfiori e dolore alle gambe, vertigini.
L’osservazione postulare con test clinici specifici è l’arma fondamentale per la diagnosi dei disturbi posturali, mettendo in relazione struttura e funzione anche di distretti corporei distanti tra loro, esempio scapole alate e piede piatto, piede valgo, asimmetrie del bacino eccetera.
Tali disturbi se intercettati in età giovanile ci permettono di fare prevenzione primaria, evitare cioè che alcune patologie insorgano (ad esempio: mal di schiena in età adulta).
Fin dalla nascita, il nostro cervello memorizza gli errori gli del sistema posturale come riferimenti di normalità, per cui non possono correggersi da soli. La possibilità di modificarli è uno strumento cruciale sia per la prevenzione che per la cura.
In tutti questi casi è necessaria un’attenta valutazione funzionale del posturologo per scoprire se alla base dei sintomi ci sono limiti meccanici causati da un’articolazione bloccata, non corretto bilanciamento del baricentro, un imbrigliamento di vene e linfatici nelle strutture anatomiche che attraversano i “cosiddetti forami di congiunzione”.
Le terapie utilizzate dal posturologo sono di tipo manuale (osteopatiche) e recettoriali (plantari propiocettivi, bite, trattamento delle cicatrici). Le terapie osteopatiche si basano sul contatto manuale sia per la valutazione che per la cura. Rispettano la relazione tra corpo, mente e spirito nella salute e nella malattia, con particolare attenzione all’integrità strutturale e funzionale dal corpo e dalla sua tendenza intrinseca all’auto-guarigione.
I plantari propiocettivi sono ortesi con stimolazione molto piccole al di sotto dei tre mm posizionate in punti specifici del piede, queste stimolazioni hanno un grande effetto sul tono neuromuscolare tale da correggere difetti posturali anche distanti dal segmento al quale vengono applicate.
I plantari propiocettivi vengono utilizzati per ridurre mal di schiena, dolori cervicali per cefalee muscolo tensive, per disturbi posturali e dell’equilibrio, vertigini in stabilità, problematiche plantari, ecc.
La valutazione e il trattamento posturale hanno lo scopo di migliorare le prestazioni nello sportivo, risolvere le cause del dolore evitando l’uso dei farmaci, fare prevenzione per evitare traumi.
di Annamaria Esposito e Giacomo Notaro