Rischio trombotico nel paziente flebopatico: prevalenza, inquadramento clinico e approccio terapeutico
L’insufficienza venosa cronica costituisce una condizione clinica molto rilevante sul piano epidemiologico, socio-sanitario e sulla qualità di vita dei pazienti a causa degli elevati tassi di incidenza, prevalenza, morbilità e complicanze. Dal punto di vista epidemiologico, la patologia venosa viene riscontrata nel 50% (Fig.1) della popolazione italiana, se si considerano tutte i quadri clinici, dalle forme più lievi alla trombosi venosa grave (Figg. 2-7). Il sesso femminile è inoltre colpito con una frequenza doppia rispetto a quello maschile.
La definizione e la classificazione delle patologie venose riscontrate in ambito clinico sono spesso eterogenee e influenzate dalla tipologia di valutazione dei segni e dei sintomi manifestati dai pazienti. Ai fini di risolvere tale eterogeneità, nel 1994 una commissione costituita da specialisti provenienti da differenti nazioni, ha ipotizzato e realizzato un sistema classificativo innovativo con l’obiettivo di definire una nuova modalità standardizzata di valutazione delle flebopatie. Tale sistema è stato denominato CEAP, in quanto si basa sui seguenti criteri: Clinici (C), Eziologici (E), Anatomici (A) e Fisiopatologici (P).
Una prima analisi del paziente deve essere effettuata per ricercare la presenza dei fattori che possono predisporre all’insorgenza della malattia venosa oppure che contribuiscono allo sviluppo di alcune complicanze quali la trombosi venosa superficiale (TVS), trombosi venosa profonda (TVP), embolia polmonare (EP) o ulcere (Tabb. I,II). Tra i fattori predisponenti un ruolo importante è svolto dalla familiarità. Sinora non è stata dimostrata una trasmissione genetica della patologia. La presenza di una predisposizione familiare si riscontra tuttavia nell’85% dei casi di varici agli arti inferiori; nel 22% dei casi la patologia insorge in pazienti che non riferiscono alcuna familiarità.
Come evidenziato nell’ambito di numerosi studi epidemiologici, l’incidenza delle varici sembrerebbe essere correlata con la gravidanza e con il numero dei parti espletati: da un’incidenza pari al 4-26%, riscontrata nelle donne nullipare, essa aumenta fino al 10-63% nelle donne che hanno avuto figli. Un ulteriore fattore clinico da prendere in considerazione è il peso corporeo. Infatti, i soggetti in sovrappeso, soprattutto se di sesso femminile e residenti in aree civilizzate, sono maggiormente affetti da IVC e da malattia varicosa rispetto a soggetti di peso normale: la prevalenza varia dal 25 ad oltre il 70% (in entrambi i sessi) nel primo gruppo rispetto al 16-45 % del secondo.
Le ulcere venose in fase attiva si riscontrano in circa lo 0,3% della popolazione adulta occidentale e con una prevalenza complessiva di ulcere attive e guarite pari all’1%; nel sottogruppo di soggetti con età superiore a 70 anni, la prevalenza di ulcere venose sale al 3%. Nell’ambito della patologia venosa, è inoltre importante valutare il rischio e gestire la possibile insorgenza di complicanze, quali la trombosi venosa, sia superficiale che profonda,e il tromboembolismo.
Che cos’è la tromboflebite superficiale?
Tra i fattori di rischio, la gravidanza rappresenta un fattore predisponente non solo alla TVP, come comunemente considerato, ma frequentemente anche alla tromboflebite superficiale.
Con una frequenza più rara, la tromboflebite superficiale può localizzarsi in altri distretti quali la vena toracica laterale (nella malattia di Mondor), la vena dorsale del pene, le vene dell’avambraccio (nelle tromboflebiti suppurative da cateterismo).
La tromboflebite superficiale, oltre a costituire una complicanza della patologia venosa, può insorgere anche su una vena precedentemente sana. Anche se la patologia viene considerata benigna, dalle evidenze pubblicate in letteratura emerge come l’evoluzione di una tromboflebite superficiale in trombosi venosa profonda e in embolia polmonare rappresenti una evenienza tutt’altro che rara.
Sulla base di queste considerazioni, si ritiene opportuno sostituire la terminologia “tromboflebite superficiale” a favore della definizione “trombosi venosa superficiale” (TVS) che meglio illustra la stretta correlazione esistente tra queste due condizioni.
Si calcola, infatti, che l’esistenza di una precedente TVS si associata a una probabilità di sviluppare una TVP oltre 4 volte superiore a quella osservabile nella popolazione normale (odd ratio 4,32; IC 1,76-10,61) (Tab. IV).
Come si sviluppa una trombosi venosa superficiale?
Dal punto di vista fisiopatogenetico, affinché si determini un evento tromboflebitico è necessaria l’attivazione del sistema emocoagulativo (Fig. 12) con successiva formazione del trombo. Nell’attivazione della coagulazione è necessario l’intervento di tre elementi, che agiscono da soli oppure in associazione (triade di Virchow):
- lesione endoteliale;
- stasi circolatoria;
- ipercoagulabilità ematica.
Il ruolo dell’ipercoagulabilità è sicuramente indiscusso nel caso di deficit congenito di antitrombina III e di proteina C. Studi recenti dimostrano, inoltre, che in molti casi di trombofilia a carattere familiare si può verificare una resistenza all’azione anticoagulante della proteina C attivata, dovuta a una mutazione del fattore V; in seguito a tale mutazione il fattore V, conserva le sue proprietà coagulanti ma è reso inattaccabile da parte della proteina C attivata. Nella tabella V, sono illustrate le principali condizioni, acquisite o geneticamente determinate, che comportano nell’organismo uno stato di trombofilia.
I momenti clinici della tromboflebite sono quindi caratterizzati dalla formazione del coagulo e dallo stato infiammatorio della parete della vena e dei tessuti circostanti. La patologia venosa trombotica può complicarsi e facilitare l’insorgenza della embolia polmonare: dal circolo superficiale infatti, i frammento del trombo possono passare al circolo profondo e successivamente, tramite le vene iliaca e cava, raggiungere la sezione destra del cuore e localizzarsi al distretto polmonare tramite l’arteria polmonare e i suoi rami. Le condizioni cliniche ed epidemiologiche che favoriscono il rischio di tromboembolismo sono molteplici e comprendono un pregresso episodio di tromboembolia venosa, l’immobilità prolungata, la presenza di neoplasie, un’età avanzata (>65 anni) e la presenza di vene varicose (Fig. 14).
La terapia della tromboflebite non può prescindere dal quadro eziopatogenetico e clinico. L’obiettivo primario del trattamento deve essere la riduzione di estensione del coagulo, la risoluzione dello stesso e il controllo dello stato infiammatorio. Andrà trattata o rimossa la noxa patogena causale (ormonale, settica, traumatica, altra patologia). La malattia varicosa, se responsabile della tromboflebite dovrà essere debitamente trattata con l’opportuna terapia chirurgica, la scleroterapica e la terapia elastocompressiva.
Per molto tempo la trombosi venosa superficiale è stata trattata con strategie differenti: antinfiammatori non steroidei in associazione con elastocompressione, cortisone nei casi più gravi, trombectomie nei pazienti con dolore intenso, stripping della safena o legatura della safena alla crosse nelle tromboflebiti ascendenti e molto vicine alla crosse per scongiurare una migrazione al profondo.
La somministrazione di antiflogistici non steroidei può avere un razionale in quanto questi farmaci attraverso la loro azione analgesica e antinfiammatoria possono accelerare il riassorbimento della flogosi perivenosa e ridurre quindi la sintomatologia del paziente; secondo alcuni autori inoltre vanno considerati gli importanti effetti antiaggreganti di questa categoria di farmaci.
Studi recenti hanno comparato l’uso di farmaci antitrombotici con la legatura safenica alla crosse nelle TVS senza TVP al fine di evitare l’insorgenza di complicazioni tromboemboliche. Il più importante tra questi è lo studio STENOX condotto su 427 pazienti, che ha preso in considerazione anche un gruppo di confronto trattato con placebo per una durata di 10 giorni e che ha dimostrato la superiorità dell’utilizzo di eparine a basso peso molecolare (LMWH), quali l’enoxaparina, somministrate a dosi profilattiche. Altri due importanti trial hanno comparato la LMWH con antinfiammatori non steroidei ed entrambi i risultati erano in favore delle LMWH.
Uno studio di Cospite et al., concludeva che il trattamento con sulodexide induce una costante, rapida e significativa remissione dei principali sintomi e segni delle patologie venose. Pinto inoltre ha posto a confronto due gruppi di 30 pazienti affetti da trombosi venose distali: un gruppo è stato trattato con sulodexide e l’altro con HMWH. Entrambi i trattamenti hanno mostrato un’efficace attività antitrombotica con riduzione dei livelli alterati di fibrinogeno e una rapida scomparsa dei sintomi e segni clinici della trombosi (arrossamento, ipertermia dolore ed edema) già dopo il decimo giorno di trattamento.
Tutti gli studi segnalano infine una maggiore tollerabilità del trattamento con sulodexide che viene somministrato per via orale.
Il sulodexide risulta quindi ideale, oltre che nel trattamento a medio e lungo termine della TVS, anche nel prevenire episodi di trombosi venosa superficiale nei pazienti affetti da vene varicose e nel ridurre la ricorrenza degli episodi trombotici.
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