Malattia Venosa e Trombosi
La malattia venosa interessa oltre il 50% della popolazione e ne sono colpite prevalentemente le donne.
La malattia venosa va dalle più comuni forme di inestetismo rappresentate da varicosità tronculari, reticolari, teleangectasie fino alle vene varicose; queste ultime si complicano spesso con trombosi e ulcere. La trombosi venosa profonda e l’embolia polmonare rappresentano le forme più gravi della malattia venosa. Quindi un panorama molto vasto di patologie, alcune con un significato prevalentemente benigno altre che possono complicarsi con una mortalità ancora molto elevata se pensiamo che ad oggi oltre 20.000 pazienti muoiono ogni anno per embolia polmonare.
In particolare la gravidanza è ancora molto segnata da una elevata mortalità per embolia polmonare.
Le vene varicose, la cui etiopatogenesi è essenzialmente legata alla familiarità, possono complicarsi fino al 40% dei casi in trombosi venose superficiali e/o profonde ma in molti casi è determinante la presenza di trombofilie.
Con questo termine intendiamo la predisposizione allo sviluppo di patologie trombotiche dovute ad anomalie congenite o acquisite della coagulazione. Negli ultimi anni sono state identificate molte alterazioni trombofiliche ciascuna con una importanza diversa per quanto riguarda la genesi dell’evento trombotico. È quindi, oggi, opportuno di fronte ad una situazione di trombosi accertata o di rischio rappresentato da un intervento chirurgico (ortopedico, addominale, neurochirurgico, ginecologico) approfondire l’aspetto coagulativo per poter predisporre la terapia o la prevenzione più opportuna.
Anche l’uso degli estro-progestinici, frequentemente responsabili di trombosi o embolie polmonari in giovani donne, dovrebbero suggerire uno studio più approfondito della coagulazione non limitato esclusivamente all’emocromo, Pt, Ptt, INR, Fibrinogeno e ATIII ma andrebbero controllate anche l’omocisteinemia, LAC, Resistenza alla proteina C attivata, proteina S plasmatica e proteina C plasmatica. Una particolare attenzione deve essere dedicata alle trombosi venose superficiali su “vena sana” e alle trombosi venose profonde senza concause.
In questi casi, un tempo inspiegabili, si è identificato nel 40% dei casi una trombofilia ereditaria; in altri casi l’attenzione deve essere posta alla trombosi come spia di una malattia insorgente o di una neoplasia in atto.
Le trombofilie ereditarie possono essere causate da difetto delle proteine anticoagulanti, proteina C plasmatica e proteina S plasmatica, e mutazioni “gain of function”, con conseguente incremento dei livelli plasmatici o della funzione dei fattori V (FV G1691A Leiden) e II (FII G20210A) della coagulazione.
I difetti degli inibitori fisiologici della coagulazione e le forme omozigoti del fattore V Leiden e del polimorfismo G20210A della protrombina sono universalmente considerati difetti trombofilici “gravi”, poiché determinano un notevole incremento, da 4 a 30 volte, del rischio di episodi di trombosi, spesso idiopatici, ricorrenti e in giovane età (entro i 30 anni).
Viceversa, i soggetti con eterozigosi del fattore V Leiden o del polimorfismo G20210A della protrombina hanno un incremento da 2 a 7 volte del rischio di TEV rispetto alla popolazione generale e tendono a manifestare gli episodi in età più avanzata (mediana 40 anni).
Il difetto di antitrombina rappresenta, senza dubbio, la trombofilia ereditaria più severa, poiché comporta un incremento di oltre 50 volte del rischio di TEV ma e’ anche la più rara.
Tra le trombofilie acquisite sono da annoverare gli anticorpi anti-fosfolipidi (lupus anticoagulant-LAC, anticardiolipina, cioè anticorpi diretti contro vari tipi di proteine.
Il riscontro di almeno uno di questi anticorpi nel plasma del paziente, confermato a distanza di 12 settimane, in associazione a trombosi venosa o arteriosa o a complicanze ostetriche, configura il quadro della sindrome da anticorpi antifosfolipidi.
Tra le trombofilie a componente mista, sia congenita che acquisita, l’iperomocisteinemia può conseguire sia a mutazioni degli enzimi del metabolismo dell’omocisteina, aminoacido derivato dalla metionina, che a cause ambientali. Queste ultime sono tutte le condizioni che comportano una riduzione dei livelli ematici delle vitamine B6 e B12 e dell’acido folico, cofattori del metabolismo dell’omocisteina. Livelli aumentati di omocisteina si associano anche a insufficienza renale, ipotiroidismo, diabete, abitudine al fumo, uso di alcuni farmaci. La mutazione genetica più frequente è la variante del gene della metilentetraidrofolato reduttasi (MTHFR) che comporta un aumento modesto dei livelli di omocisteina.
La prevalenza di questa variante, trasmessa in forma autosomica recessiva, è stata stimata pari al 30-40% della popolazione generale italiana. Si tratta,comunque, di un blando fattore di rischio trombofilico (incremento di 1.5 volte del rischio di TEV). Per questo motivo non se ne consiglia la valutazione in clinica al di fuori del contesto della ricerca scientifica.
Infine, è stata dimostrata in più occasioni un’associazione tra elevati livelli ematici di alcuni fattori della coagulazione, in particolare il fattore VIII, ed un modesto aumento del rischio di TEV. I livelli dei fattori della coagulazione sono sia influenzati da condizioni ambientali (come la flogosi), che determinati geneticamente anche se, ad oggi, non sono state individuate mutazioni genetiche in grado di causare incrementi delle loro concentrazioni plasmatiche.
I test funzionali per trombofilia possono risultare alterati durante la fase acuta dell’evento trombotico, in corso di terapia anticoagulante (sia orale che parenterale), durante la terapia estro-progestinica, durante la gravidanza, in corso di gravi epatopatie, di sindrome nefrosica o coagulazione intravascolare disseminata. Pertanto, eventuali risultati alterati, ottenuti in queste condizioni, non potrebbero essere ritenuti attendibili, comporterebbero errori diagnostici e quindi andrebbero comunque ripetuti. Viceversa, possono essere sempre eseguiti i test genetici e la ricerca degli anticorpi antifosfolipidi.
Ad oggi, non esiste un consenso unanime circa le situazioni in cui sia utile sottoporre i pazienti a screening per trombofilia. Tuttavia, appare evidente come uno screening indiscriminato in tutti i pazienti con flebopatia o esposti a situazioni a rischio (come un intervento chirurgico, la gravidanza o la terapia estro-progestinica) non sia di alcuna utilità, ma, anzi, possa, in qualche caso, risultare controproducente. Sappiamo inoltre che uno screening è utile solo se i risultati ottenuti permettono di modificare le nostre scelte terapeutiche nei confronti del paziente che viene esaminato.
Pertanto, nella fase acuta dell’evento trombotico, non è indicato sottoporre il paziente a screening per trombofilia in quanto, come suggerito dalle linee guida, è necessario intraprendere una terapia anticoagulante indipendentemente dalla presenza o meno, in quel paziente, di anomalie trombofiliche. Semmai, un discorso a parte merita il deficit di antitrombina, l’unica trombofilia che, seppur molto rara, andrebbe esclusa quanto prima poiché può comportare una resistenza del paziente al trattamento anticoagulante con eparina, con peggioramento del quadro clinico.
Superata la fase acuta dell’evento (almeno 3 mesi), occorre determinare la durata della terapia anticoagulante bilanciando il rischio di recidiva di TEV con quello di complicanze emorragiche. In caso di TEV secondario a fattore di rischio transitorio è ragionevole sospendere l’anti-coagulazione, senza, anche in questo caso, sottoporre il paziente ad ulteriori indagini di laboratorio.
Ma in caso di TEV idiopatico, la presenza di un’alterazione trombofilica può aumentare il rischio di recidiva al punto di modificare la nostra gestione ed indurci a proseguire l’anticoagulazione sine die? Per rispondere a questo interrogativo, sono stati condotti diversi studi prospettici e metanalisi, con risultati talora contrastanti ma che, in generale, hanno smentito un eventuale ruolo della trombofilia nell’individuare i pazienti con un rischio di recidiva abbastanza elevato da giustificare una terapia anticoagulante prolungata. Diverso è il caso degli anticorpi anti-fosfolipidi, il cui reperto, se confermato, configura il quadro clinico della sindrome da anticorpi antifosfolipidi per cui è indicata un’anti-coagulazione a lungo termine.
Può invece risultare utile effettuare uno screening per trombofilia in caso di trombosi idiopatiche insorte in età giovanile, specie se recidivanti, o in sedi non usuali, o in corso di gravidanza, o in donne che fanno uso di contraccettivi orali o terapia ormonale sostitutiva o, in caso di TVS su vena sana. In tutte queste condizioni cliniche, il reperto di un’anomalia trombofilica, ad eccezione, di nuovo, degli anticorpi anti-fosfolipidi, non modifica l’iter terapeutico ma può contribuire a dare una spiegazione eziologica all’evento e magari indurre ad estendere la ricerca, in caso di riscontro di anomalie trombofiliche gravi, ai familiari del paziente.
Inoltre, va tenuto presente che interpretare i risultati dei test di screening per trombofilia in modo isolato costituisce un errore in quanto l’evento trombotico ha una patogenesi multifattoriale: la trombofilia, sia essa genetica che acquisita, rappresenta solo uno dei protagonisti del complesso scenario in cui si sviluppano le flebopatie.
Nuovi anticoagulanti orali: progressi e limitazioni nel mondo reale
I benefici dei nuovi anticoagulanti orali
Il gruppo dei nuovi anticoagulanti orali diretti (DOAC), con i loro risultati favorevoli negli studi clinici di fase III su vasta scala, rappresenta un progresso fondamentale ed ha espanso l’arsenale della terapia anti-trombotica. Dabigatran, Rivaroxaban, Apixaban ed Edoxaban vengono ora impiegati di routine per prevenzione e trattamento delle patologie trombotiche venose ed arteriose proprio come negli studi clinici.
Ci si attende che l’impiego dei DOAC si incrementi sia con l’esperienza dei medici nella loro gestione, sia con i dati derivanti dagli studi nel mondo reale, che in genere sono coerenti con gli studi clinici. Lo sviluppo di antidoti specifici per la gestione delle complicazioni emorragiche e quello di esami della coagulazione per il livello plasmatico dei anticoagulanti orali rafforzeranno ulteriormente la fiducia che si ripone in questi farmaci, ma sussistono ancora limitazioni ad essi associate.
Quali sono le limitazioni dei farmaci anticoagulanti?
Molti pazienti che necessitano di terapie anticoagulanti per indicazioni non studiate nelle indagini cliniche non vengono considerati candidati ai DOAC. Le aree in cui sono necessari altri dati comprendono l’uso pediatrico dei DOAC, i pazienti con fibrillazione atriale e cardiopatie valvolari, le trombosi associate a sindromi antifosfolipidi e quelle associate ai tumori.
I costi economici e l’accesso a questi farmaci anticoagulanti potrebbero rappresentare un problema per molti pazienti sotto sistemi sanitari che non li forniscono. Dato che quattro nuovi anticoagulanti orali stanno uscendo rapidamente sul mercato, l’attenzione è stata spostata sull’approccio pratico e sulla gestione nella vita reale, dato che molti medici non hanno ancora familiarità con l’uso dei DOAC.
I medici devono essere educati sul modo di gestire questa nuova classe di farmaci, a partire dalla scelta del farmaco appropriato per gestire sia la prevenzione che le complicazioni emorragiche, dato che una carenza di comprensione e conoscenze porterebbe ad un impiego inappropriato dei farmaci stessi e comprometterebbe la sicurezza del paziente. (Thromb J. 2016; 14 (Suppl 1): 17. eCollection 2016).
Flavonoidi: composti chimici naturali diffusi nelle piante
Che cosa sono i flavonoidi?
I flavonoidi sono composti chimici naturali chiamati “spazzini” dei radicali liberi per il loro alto potere antiossidante. Giocano un ruolo essenziale contro le malattie, mantenendo sani più organi importanti e svolgendo compiti fondamentali in varie azioni quali:
- antinfiammatoria, per inibizione del rilascio di mediatori dell’infiammazione e stabilizzazione delle membrane cellulari;
- azione diuretica per inibizione della fosfatasi renale;
- azione spasmolitica sulla muscolatura bronchiale e a livello dell’intestino;
- antiallergica, potenziando l’azione antitossica epatica;
- anti-infettiva e preventiva per le malattie cardiache, riducendo l’adesività delle piastrine nel sangue;
- antitumorale, prevenendo la formazione dei carcinogeni nel tratto intestinale;
- chelante, ovvero catturano, neutralizzano ed eliminano i metalli pesanti.
Ultimamente sono stati condotti studi sperimentali ed i flavonoidi hanno dimostrato di possedere proprietà protettive sulle cellule del tessuto nervoso (neuroni) e del tessuto vascolare (endoteliali), e di agire sui meccanismi potenzialmente coinvolti nella patofisiologia della depressione. In particolare, hanno rivelato un’azione anti-infiammatoria sui neuroni, di controllo sulla morte cellulare per apoptosi (morte programmata della cellula) e di aumento del flusso sanguigno. I flavonoidi o bioflavonoidi sono contenuti principalmente nelle piante. Hanno un effetto sinergico alla vitamina C, per questo talvolta vengono indicati anche sotto il nome di vitamina C2.
Il loro nome deriva da “flavus” ovvero “giallo” per via del colore che danno alle piante. I flavonoidi hanno anche funzione di “scavenger” e possono inibire la produzione, l’aggregazione e l’adesività delle piastrine. Nel regno vegetale proteggono la pianta dagli effetti dannosi delle radiazioni solari, dalle aggressioni di patogeni ed intervengono attivamente nel suo metabolismo (crescita, respirazione, processi enzimatici, fotosintesi, attrazione visiva degli insetti utili per l’impollinazione). La classe dei flavonoidi, in natura, è piuttosto ampia; si conoscono più di 5000 composti ed il loro effetto terapeutico dipende in larga misura dal fitocomplesso.
Il cardo mariano, per esempio, espleta principalmente un’azione epatoprotettiva (stimola la funzionalità del fegato e lo protegge dalle tossine), il thè verde è particolarmente noto per le sue proprietà antiossidanti ed “anti-invecchiamento“, mentre l’ippocastano vanta un’importante azione protettiva e rinforzante sul microcircolo, una proprietà esaltata dalla contemporanea associazione di vitamina C. Analogo discorso per il vino rosso, che a dosi moderate influenza positivamente la salute cardiovascolare grazie alla sua ricchezza di flavonoidi e di altri polifenoli come il resveratrolo. In ambito farmaceutico, invece, si possono trovare in compresse che contengono particolari molecole, come: la rutina, che produce un’azione trofica sulla parete endoteliale; la diosmina, che regola la permeabilità dei vasi aumentando il tono venoso; la centella, che sintetizza il collagene quindi indicata per il gonfiore alle caviglie ed al trattamento della cellulite; l’esperidina, che ripara il danneggiamento del tessuto endoteliale.
I flavonoidi sono assunti prevalentemente sotto forma di integratori alimentari, che in funzione della diversa composizione dei principi attivi, sono più efficaci nel miglioramento di uno specifico disturbo.
Nello specifico ecco alcuni integratori alimentari a base di flavonoidi con specificati i disturbi sui quali hanno efficacia.
Il Flavoplus è composto da 4 componenti (Diosmina, Esperidina, Rutina, Centella) tutti flavonoidi con azione venotrofica volti a migliorare il microcircolo, ridurre la flogosi e regolare la permeabilità capillare.
Il Maxidren è invece composto da (Betulla, Centella, Pilosella e Meliloto) , è disponibile sia in compresse sia come liquido da diluire in acqua, in questo caso la sinergia tra i vari componenti funge da coadiuvante della terapia drenante, depurativa, nel sovrappeso e negli edemi.
In ultimo esistono anche delle formulazioni in crema che uniscono all’idratazione i benefici dei flavonoidi sulla cute. Il Tonogel è composto da (Rusco, Escina, Amamelide, Arnica, Calendula, Aloe). Grazie ai suoi costituenti fornisce una sensazione di benessere alle gambe, idrata e dona una sensazione di freschezza all’epidermide.